Incantevole (Racconti isolati)

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BONUS TRACK – CONCLUSIONE

(suggestione sonora: Subsonica – Incantevole)

Il cardo (Cynara cardunculus L.) è una specie di pianta appartenente alla famiglia delle Asteraceae.
È una robusta specie emicriptofita, cioè una pianta erbacea perenne che affida la propria sopravvivenza, oltre che agli acheni, a specifiche gemme poste a livello della superficie del terreno, portate sulla frazione basale del fusto e sui rizomi.

Quello del cardo è stato il primo fiore che ho incrociato in mezzo alle erbacce quando sono uscito di casa per fare una passeggiata post lockdown, una semplice passeggiata senza alcuno scopo.
Una pianta coriacea, spontanea, spinosa, complicata da estirpare. Come il virus, come noi esseri umani. Ma decisamente più bella di entrambi, tutto sommato.
Non siamo fuori dal tunnel, ma siamo di nuovo in pista, almeno in parte.
Ho ripreso anche la macchina e, percorrendo la tangenziale est, ho capito che le persone non sono ancora lucide: in meno di due chilometri mi sono imbattuto in due incidenti piuttosto pesanti, visto che le macchine coinvolte erano ridotte in poltiglia. Il sole brucia, è scoppiata l’estate e la mascherina è subito diventata una tortura indicibile. Un ostacolo tra me e il mio respiro. Fa già troppo caldo, ma dovremo abituarci a resistere. Non so cosa sarà di me ora che sono in semilibertà disorientata e continuo a farmi le solite domande: resto a Roma ancora per quanto? Me ne vado a Berlino a sistemare le cose? E quando? È troppo presto, troppo presto per tutto. Siamo a malapena a media cottura quando desideriamo qualcosa di ben cotto. Le ruote corrono veloci sull’asfalto: rivedrò persone a me care, mettiamo almeno una bandierina su questo tabellone da gioco desolatamente svuotato di tutto.
Tornerò a casa, stapperò una birra, accenderò una sigaretta, farò quello che ho sempre fatto in questi due mesi in cui tutto si è cristallizzato.
Non so da che parte ricominciare.
Quello che ci attende adesso è un mondo nuovo e non sono affatto convinto che saremo migliori di prima, nonostante tutti si riempiano la bocca di buoni sentimenti e parole da automotivazione del cazzo, tipo resilienza.
A volte anzi, tutti gli indizi mi portano a pensare che il genere umano sia stato inviato sulla Terra milioni di anni fa da un’entità malvagia e sia stato programmato per vampirizzarla e distruggerla: perfino quelli che fanno di tutto per salvarla, perfino i bambini appena nati. Può darsi che il conto alla rovescia finale sia iniziato, che qualcuno abbia schiacciato il bottone rosso; e se poi è davvero rosso, non lo sapremo mai.
Ci hanno dato un compito preciso: evolvere – in un lasso di tempo relativamente lungo – in una macchina da guerra distruttiva al cento per cento e ancora non abbiamo sfruttato tutto il nostro potenziale. Quando le tacche saranno al massimo, giungerà il momento di infierire definitivamente sul pianeta nemico che abbiamo sedotto e intrappolato in millenni di storia e meraviglie, dall’uomo di Cro-Magnon fino al Covid-19.
Stiamo ingannando il mondo come il marito apprensivo e dolce che si prepara – giorno dopo giorno, regalo dopo regalo, bacio dopo bacio – a picchiare a morte la moglie per il solo gusto di farlo.
Mentre aspetto affacciato al solito terrazzo la mia sanguinaria e definitiva evoluzione in vampiro, penso che David Bowie abbia deciso di andarsene da qui al momento giusto perché sapeva di tale piano diabolico e non voleva diventare un mostro, poi mi preparo del pesce surgelato e per finire mi torna in mente quello che mi è accaduto tre anni fa. Alcuni sono a conoscenza di una parte, esattamente fino a quando ho trovato quell’uomo impiccato a Berlino.
Quello che è successo dopo, ormai ho deciso, lo racconterò presto altrove. E sarà allora che tutti capiranno che la mia teoria sull’essere umano distruttore non è poi così bislacca.
Il cardo può pungerti con le sue spine, ma non lo farà mai con cattiveria. Il cardo, non a caso, non è un essere umano.
Ci si vede in giro.

つづく

in copertina Andrea Straniero – Un cardo a Serpentara

Incantevole (Racconti isolati)

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CAPITOLO XII – FASE 2 CHIAMA ANDREA

(suggestione sonora: Bugo e Morgan – Sincero)

Quando Günter Schabowski, portavoce della DDR nel 1989, dichiarò lo stop alle restrizioni dei viaggi da Berlino Est a Berlino Ovest, non sapeva quando effettivamente sarebbe entrata in vigore. Fu così che il giornalista italiano Riccardo Ehrman lo incalzò: da quando? Schabowski, che non era preparatissimo e aveva con sé solo un pezzetto di carta con degli appunti scritti all’ultimo prima di incontrare la stampa, rispose che, per quanto ne sapeva lui, la legge era già in vigore. Le cose non stavano così, la legge sarebbe diventata effettiva soltanto la mattina dopo, ma questa imprecisione fu la prima letale picconata al muro di Berlino. Che di lì alla mattina dopo era crollato sotto il peso importante dell’entusiasmo della gente.
Il governo italiano si è comportato un po’ come Schabowski quando ha parlato di permesso di incontrare i congiunti: finché erano genitori, fratelli, nonni e cugini, il muro stava ancora su. Poi, incalzato dalle domande, senza ancora un decreto che sancisse il tutto, ha detto sì ai rapporti stabili tra fidanzati e infine alle lunghe amicizie. Siccome tutto questo non è dimostrabile in alcun modo e siccome rischiamo di trovarci in un breve vuoto normativo, il muro della quarantena crollerà il 4 maggio del 2020. Anzi, forse è già parzialmente crollato, a giudicare dalle scorribande della folla che osservo dal mio oblò appannato. Quello che succederà dopo il crollo, lo vedremo poi.
Günter invece, si è fatto tre anni di galera per omicidio colposo plurimo, è tornato libero ed è stato l’unico burocrate a riconoscere pubblicamente la sua corresponsabilità per gli aspetti dittatoriali della DDR. È morto nel 2015.
Fase 2 chiama Andrea. Anche il mio muro sociale verso il mondo esterno sta vacillando: il fatto però è che buona parte delle cose che mi mancano continueranno a non esserci nemmeno dopo il cedimento del divisorio. Quindi voglio uscire, ma non mi serve a un cazzo farlo così.
Se butto giù la mia solita lista, viene fuori più o meno l’impostazione dell’oroscopo settimanale di un qualsiasi segno zodiacale.
E dire che non ne leggo uno da quando avevo 19 anni.
L’amore e il lavoro (e quindi i soldi) li ho lasciati a Berlino e non so nemmeno se quando tornerò li ritroverò. Gli affetti stabili interrotti, congelati, forse uccisi definitivamente per la mia smania di cambiare sempre e ricominciare tutto da zero, pure durante la clausura.
I viaggi, che sono il sale della mia vita, azzerati. Ah no, in Italia forse potrò andarci. Paesaggisticamente bello, bellissimo, ma viaggiare per davvero significa soprattutto misurarsi con culture molto diverse dalla tua e non andare nel paesello medievale umbro o alla spiaggia figa pugliese. Con tutto che spesso saranno più belli di ciò che troverai più lontano da te. Però per me il concetto di viaggio è questo, per altri magari sarà anche andare da Torpignattara a Monteverde, che in effetti col traffico puoi metterci lo stesso tempo di un volo Roma-Amsterdam.
Questioni di gusti, di visioni, di limiti.
Il divertimento è ancora sospeso. Lo sono anche le cene etniche in giro per la città  con Edoardo e Tommaso, gli aperitivi con Marco, le serate alcoliche a fare il terzo incomodo tra Laura e Simone. I complotti nerd  davanti a una birra di livello insieme a Donato! E i concerti, l’ho già detto tempo fa, quando torneranno mai?
Questa è tutta vita sottratta alla mia indigesta permanenza romana.
Sandro invece se ne fotte: è in panciolle, in lockdown dall’altra parte del pianeta.
Le donne! Ecco, almeno le donne cerco di non farmele mancare: con Selene abbiamo deciso di rivederci dopo tre lunghi anni dalla nostra ultima volta. A casa sua. Io sono in pausa, lei anche, direi che almeno un problema ce lo risolviamo volentieri entrambi, senza star lì a raccontare al governo la stabilità della nostra relazione.
Fortuna: l’ultima voce del tuo scintillante oroscopo personalizzato. Per fortuna c’è anche qualcosa che non mi manca e di cui non mi interessa nulla: le palestre, le spiagge e le file fuori dai locali che vendono alcol scadente a due soldi.
Tutti luoghi di aggregazione che personalmente ritengo superflui.
Insomma, adesso sono nella fase che esco e spacco il mondo, canto a squarciagola le canzoni inglesi al karaoke, do alle stampe il capolavoro della mia vita, assaggio di nuovo l’aria della notte che non sia quella del mio terrazzo ma dopo cinque minuti torno a casa come un coglione, perché il mio mondo gira ancora rallentato come un 45 giri ascoltato col pitch a 33. 

in copertina Thierry Noir – Hommage an die junge Generation (East Side Gallery, Berlin)

Incantevole (Racconti isolati)

Mark Bryan Diablo High Wire

CAPITOLO XI – DRAGONCELLO

(suggestione sonora: Niccolò Fabi – È non è)

La quarantena era iniziata coi termosifoni ancora accesi, adesso è arrivata la prima zanzara in casa. Segno che il tempo è passato. L’ho ospitata per un giorno, non mi ha punto, poi l’ho uccisa al volo mentre tentava di fuggire: la sua vita è terminata nel percorso in altura tra lo specchio del bagno e il soffitto. La ricorderanno come morta durante la pandemia, anche se non direttamente a causa del virus.
Il tempo è passato, non ricordo quanto tempo sia, ma gli alberi qui sotto erano ancora secchi e adesso hanno le foglie verdi anche piuttosto fitte. Loro, dei barbieri e dei parrucchieri chiusi, se ne fottono. Esibiscono fieri la calvizie fino ai primi di marzo e poi sfoggiano una chioma invidiabile, senza nemmeno sentire caldo, fino all’autunno. Ieri sono uscito di casa per andare dal ferramenta e mi sono reso conto che non solo il tempo è passato ma la gente non capisce più nemmeno che giorno è. Così, di lunedì 27 aprile, un’anziana signora chiede la data a una ragazza. La ragazza risponde che è 26. La signora ribatte ancora, che giorno della settimana? e la ragazza: mi pare mercoledì ma non sono sicura. Tutto sbagliato. Volevo intervenire, poi ho rinunciato: in fondo che differenza fa? Il tempo passa, non hai appuntamenti, non vai a scuola, all’università, al massimo fai la spesa. Oppure lavori, e allora, pur in una situazione surreale, arrivi al venerdì desiderando un weekend in cui non farai assolutamente un cazzo di niente, se non cucinare colto da manie ossessivo-compulsive, immerso nei lieviti, nelle farine, nel prodotto introvabile della settimana che è introvabile perché va di moda sui social e nei tg.
Ho deciso che se mi pagano bene cercherò di promuovere l’uso del dragoncello. Così le pecore correranno a comprarlo e la scomparsa della preziosa erba da tutti i supermercati farà notizia. Poi via, tutti a postare la pizza al dragoncello, la torta al dragoncello, il limoncello al dragoncello, il dragoncello al dragoncello. In lockdown o hai molta fantasia e spirito imprenditoriale oppure soccomberai mentre frigni dicendo che presto l’economia sarà morta e il liberismo ha i giorni contati.
Più dragoncello, meno piagnistei.
In molti, anche nella mia Berlino, chiedono a gran voce il ritorno della libertà, ma la libertà nel fantastico occidente attualmente prevede al massimo che tu torni a breve a mettere due soldi in tasca per campare senza ansie. Sempre che nel frattempo non crepi per il contagio, che non è che siccome non credi possa capitare a te, allora poi non ti capita. Nel caso camperanno bene i tuoi eredi, ammesso che prima o poi riusciamo a uscire da queste sabbie mobili e gli eredi possano davvero campare senza indossare uno scafandro per l’eternità; il che, caro amico chino sul fatturato, è tutto da vedere.
Le foglie, i capelli, le stagioni, il dragoncello, tutto procede come da copione, tranne noi.
Così ieri sera sono salito sulla terrazza del tetto, ho guardato le luci accese dentro ai palazzi, il cielo che mostrava le prime avvisaglie della pioggia sporadica di oggi e ho ascoltato tutti i rumori: anche quelli consueti che non ti sei mai spiegato da dove vengano. E ho realizzato che, rispetto a due settimane fa, il poetico silenzio della ligia quarantena si è rotto. Peccato. Ho percorso qualche metro sulle mattonelle consunte dal vento e dal sole, ho acceso una sigaretta, ho assaggiato, inspirandola, l’aria di primavera che ha un sapore diverso da quello dell’inizio della clausura. Migliore o peggiore, dipende dai gusti meteorologici. Volevo urlare, ma mi venivano solo monosillabi, quindi ho preferito non produrre ulteriore inquinamento acustico.
Poi sono tornato nel mio appartamento, ho guardato un orologio e mi sono reso conto che era passata un’ora. Un’ora della mia vita che, contro tutti i pronostici, ho trascorso sul tetto di casa, a Roma, durante una pandemia. Ci avessi scommesso a dicembre, sarei diventato milionario.
Forse un giorno ripenserò agli animali da zoo che siamo diventati, ma che tutto sommato eravamo anche prima: chi protesta e inneggia ora alla libertà non è consapevole che tra lui e un panda esposto al giardino zoologico, tutto sommato, c’è poca differenza. L’unica reale e tangibile è che il panda è sicuramente meno stupido perché almeno si rende conto di essere dentro a un rassicurante recinto e non nella sua foresta di bambù preferita.
Il tempo che passa, la libertà negata, i panda nel recinto, i meme sempre più stanchi sull’identità dei congiunti, il nord che produce contro il sud che ozia. Durante la pandemia ci siamo scoperti tutti più meschini, di certo per niente uniti come quelle bandiere ipocrite sui balconi volevano far sembrare nei primi giorni.
Il tempo passa e aggiusta tutto, dicono. Sarà.
Intanto mi sono ricordato perché me n’ero andato via dall’Italia: quasi nessuno ha pensato al dragoncello.

in copertina Mark Bryan – Diablo High Wire

Incantevole (Racconti isolati)

CAPITOLO X – HAI PAURA DELLA LUCE?

(suggestione sonora: Cosmo – L’altro mondo)

25 aprile 2020, ore 10,30 di mattina, vibra il telefono nel nuovo stato non molto libero di Pandemia.

E tu che farai tra dieci giorni? Io-io-io-non lo so, me butto nelle fontane pe’ la gioia!
– Ma perché, che succede tra dieci giorni?
Andrè, ma dove vivi? Riapre tutto!
– Uhm, ne sei sicuro?
– Oh così avevano detto, 4 maggio, no?
– Voi italiani siete sempre così ottimisti…
– Ma anvedi oh, ma perché te invece che sei? Tedesco? Allora oggi che è 25 aprile te dovemo sparà ahahah…daje cor treninoooo bellacciaobellacciao, oggi pomeriggio qua sui balconi famo er concerto. Due volte bella ciao, poi parte un medley de Battisti, Baglioni, Venditti…oggi è festa se famo sentì de più! Voi là che fate? Almeno magnate ‘na cifra?
Noi? Ma noi chi? Io sono solo, ricordi Massimo?
– Aòòò essù! VOI, quelli der condominio tuo, quelli de fronte.
Ma che cazzo ne so, ma chi cazzo li conosce! Qui fanno tutti fitness: praticamente guardare il palazzo di fronte equivale a essere il receptionist di una palestra, solo che invece delle telecamere fisse hai le finestre.
– Vabbè, ‘nfate ncazzo. In periferia siete tristi, noi qua sulla Cassia semo più allegriii! Er buonumore, la Liberazione dalle rotture de cojoni de sta’ a casa tutto er giornoooo!
– Massimo, a parte che pure la Cassia è periferia, ma tu sei sicuro di quello che dici?
– Vabbè, dovremo portà le mascherine, nun se damo la mano, er resto torna come prima. Sai che te dico? Che io appena ce fanno uscì me vado a tajà i capelli e poi vado ar mare cor capello fatto. Sarà pieno de fica! Tanto mi’ moglie dorme ar sole e i regazzini giocano. Con la mascherina eh! Però dai, finalmente damo pure du’ calci ar pallone, giocamo ai racchettoni! Poi sudo e me butto a fà er bagno.
Ah…ma non ti fa schifo solo l’ide…
– Zitto, Andrè, zitto, famme gode’ come se deve! Poi…poi me vado a fa’ ‘na magnata de pesce a casa mia a Fregene, che i ristoranti nun lo so se so’ aperti proprio er 4, magari l’11 sì. Certo, chiamo pure suoceri e cognati con tutti i regazzini, almeno ci si rivede. ‘Na bella grigliata pe’ riabbraccià tutti, no? Mo basta co’ le videochiamate, anche se me diverto, eh! Ma tu perché hai spento er video?
Aehm…no è che…è la connessione ballerina. Ma sai, comunque a me sembra tutto sospeso adesso e probabilmente le cose non torneranno normali prima di un anno. Tutto questo se ci dice culo, eh.
– Mm famme grattà le palle, va! Andrè, te non cambi mai, eh? Ottimismo, voja de vive, ma nun te manca Roma, nun te mancano l’amici tua? E la lingua ‘mbocca? Al limite nun te manca Berlino? Che tra l’altro voi esterofili nun sapete apprezzà le bellezze dell’Italia e annate a dà i soldi ai tedeschi che poi ce mettono a pecora!
Massimo, scusami, devo chiamare mia madre. Magari continuiamo un altro giorno. Scusa davvero.
– Ciao bello, daje eh!

Ovviamente, in realtà, mia madre non la sentirò prima di domani. Ma siccome sono educato e non voglio mandarlo a cagare entro le prossime due risposte, ho preferito salvargli la vita.
Massimo è Massimo Giovannelli. Non ci parlavo da diverso tempo, un vecchio conoscente, lavoravamo insieme in una redazione di un sito web anni fa, prima che io iniziassi coi social. Non mi è mai piaciuto, ma lui ogni tanto continua a chiamarmi oltre a mandarmi le peggiori nefandezze su Whatsapp. Probabilmente non gli piaccio nemmeno io: non ho ancora capito se debba sbattermi in faccia la sua presunta realizzazione sociale, i suoi soldi o che cosa, fatto sta che ai miei occhi è un povero cretino.
Ma su una cosa, il buon Massimo mi ha fatto riflettere: nonostante persino gli spot pubblicitari si siano ormai adattati a questa bolla e inneggino alla ripresa intrisi di buoni sentimenti e sorrisi, io non ho minimamente pensato a cosa farò quando e se ripartirà tutto. Perché la mia vita non è lineare, perché sospeso in questo limbo non ci sto bene, eppure una pausa ci stava bene. Il problema è cosa succede dopo la pausa. Molti dicono “faccio un casino appena esco”.
Io non amo il casino e soprattutto non ho voglia di ammalarmi come probabilmente succederà a molti di questi idioti caricati a molla peggio dei finalisti dei cento metri alle Olimpiadi. A parte che voglio vederli: riesci davvero a varcare la soglia di casa e a non tornare subito indietro col panico addosso? La mente umana gioca brutti scherzi e si abitua troppo facilmente anche alle quarantene.
Se vivi sempre al buio non è il buio a farti paura, è la luce.
Che farò allora? Forse per prima cosa, con molta calma, andrò a vedere quello che mi sta mancando: che sono persino i pavimenti grigi di cemento della fermata della metro B1 di viale Libia. Non ho detto il Colosseo, non ho detto il centro. Mi mancano prima di tutto i miei posti. Le cene al pub vicino casa, i marciapiedi sconnessi di piazza Verbano, una chiacchiera notturna accanto a un “nasone” della Balduina. O due passi in Auguststraße a Berlino, tra ristoranti di quartiere, gallerie d’arte e targhe in lingua ebraica sui palazzi e poi giù fino al Marx Engels Forum a guardare la Sprea che scorre tranquilla con qualche foglia secca che ci nuota dentro persino in estate.
No, quando riaprono non faccio un casino e non so nemmeno se esco subito.
Ho appena arredato la quarantena: traslocare in fase 2 richiederà tempo, energia, fatica.
Molti cittadini del nuovo stato non molto libero di Pandemia, sembrano invece essere più veloci di me.

in copertina Kevin Sloan – Eight Ball

Incantevole (Racconti isolati)

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CAPITOLO IX – GLI AMICI MONOPORZIONE

(suggestione sonora: Boy Harsher – Electric)

Mentre George Orwell si rivolta nella tomba per tutte le volte che viene inopinatamente chiamato in causa, i giorni di quarantena scorrono lentamente e forse siamo più vicini all’alba. Qualcuno vocifera il 12 maggio, almeno qui a Roma. Tra le attività principali di chi è rimasto intrappolato a casa, c’è il prepararsi cibi sani o meno sani da mangiare. Senza tralasciare le foto da postare sui social, ovviamente. Foto che però ormai, a meno che tu non sia un ristorante che si fa pubblicità, uno chef o ti sia uscito un vero capolavoro, sono fuori tempo massimo già da almeno un paio d’anni. Quelli che ancora le postano ci arriveranno entro altri cinque anni, ma ci arriveranno.
Io sono solo. E voglio starci, pur in compagnia della noia, pur con i messaggi delle persone che mi cercano e qualche sporadica videochiamata che accetto di fare, pur tirandomela parecchio.
Tuttavia, quando mi sono rotto i coglioni di cucinare, cioè quasi subito, ho conosciuto diversi nuovi amici. Il cibo è sociale, sempre.
Alessandro, Diego, Pierre, Greta, Silvio, Cesare, Clementina, Ovidiu e Marco: sono i miei amici monoporzione.
Alessandro ha, credo, sui 24 anni, porta gli occhiali e quasi certamente studia all’università. Ha la faccia da bravo ragazzo che per arrotondare ha scelto di portarmi a casa una cena cinese. Attentissimo alla mascherina e ai guanti, mi ha lasciato il pacchetto su un foglio di giornale che ho messo sul pianerottolo. All’inizio mi ha dato del lei, poi si è sciolto e ci siamo dati del tu. È arrivato in anticipo ed è stato per circa sessanta secondi il mio amico di un lunedì sera piovoso.
Diego avrà circa 30 anni, i capelli  lunghi e gli è andata male con il lavoro: prima cameriere in un pub, poi qualche mese al call center. È stato fermo, poi, la quarantena come opportunità: ha ricominciato da qui. Dalla pizza margherita coi wurstel, la crocchetta di patate, il supplì e le tre birre che mi ha portato a casa. Molto sciolto, non si è nemmeno accorto del foglio di giornale e mi ha passato il cartone e le buste direttamente in mano. È arrivato in perfetto orario, il che me lo ha reso simpatico. Parole scambiate: ciao, grazie, gentilissimo!
Pierre, poco più di 20 anni, quasi certamente viene dal Senegal, zona est. Nero come lo spazio profondo, i suoi denti bianchissimi fanno un contrasto così forte che sembra quasi che porti addosso il filtro x-pro di Instagram caricato al cento per cento. Anche lui in perfetto orario con gli uramaki in mano, insana voglia di uno come me che di solito scansa sushi, sashimi, maki e compagnia.  Ma cosa vuoi, ogni tanto tocca variare l’alimentazione. Ligio al distanziamento sociale, mi ha sorriso timidamente, ha rimesso la mascherina e ciao ciao, stasera ho parlato meno del solito.
Greta secondo me ha 22 anni. È venuta un sabato pomeriggio a portarmi il mio gelato preferito, simbolo di un mondo che per il momento non c’è più. Il mondo in cui capitava, qui a Roma, di uscire a fare due passi, magari in pieno inverno, e andare proprio in quella gelateria a divorare un cono bigusto che contenesse un’overdose di cioccolato extradark. Mascherina, guanti, gli occhiali più grandi del suo viso e i capelli raccolti in una treccia color miele. Però mi ha dato del lei. Ti pare che si dà del lei agli amici? Sei l’unica fottuta persona che vedrò oggi e mi dai del lei! No Greta, non ci siamo. Scappa indossando il sorriso d’ordinanza. Ci rivediamo, forse, al prossimo gelato, ma stavolta se non mi dai del tu, non ti lascio la mancia.
Silvio mi ha portato una cena gourmet, di venerdì. Due antipasti e un primo di pesce. Più una bottiglia di dignitosissima Falanghina Feudi San Gregorio. Era la sera in cui volevo trattarmi bene. Ci hai messo quasi due ore, Silvio, santa Madonna. Io aspettavo qualcuno per parlare e anche, cazzo, per mangiare come si deve e tu ti presenti con due ore di ritardo? Silvio ha una cinquantina d’anni, non ho idea di che lavoro facesse prima, è affaticato e si è cosparso il capo di cenere per il ritardo. La colpa però è della app di delivery perché il mio primo amico della serata, Manuel, ha avuto un incidente e nessuno ha pensato a come sostituirlo. Silvio era fermo a due chilometri da casa mia, aspettando che qualcuno gli assegnasse un cliente. Si raccomanda di scaldare la cena, gli sorrido e spero in cuor mio che il povero Manuel non sia morto. Comunque ci ho parlato per quasi tre minuti, un record.
Cesare…ciao Cesare! Dalla piccola foto profilo sulla app, dimostra 35 anni portati male. Con Cesare ho parlato al citofono: il kebab, ingurgitato durante un  interminabile martedì in cui avevo più nostalgia berlinese del solito, me lo ha lasciato in ascensore. Niente amico monoporzione, niente mancia.
Clementina è alta un metro e ottanta, un po’ sgraziata, va certamente per i 38 anni, non è bellissima, ma è estremamente gentile, anche se molto sulle sue. Dieci minuti di ritardo per lei e il mio superburger con patatine fritte. Ha fretta, è schiva, è sabato, ciao Clementina ciao, non mi hai manco dato il tempo di lasciarti la mancia. Altro che distanziamento sociale, seppur con gentilezza, stavi per tirarmi l’hamburger dalla porta dell’ascensore, Clemy! Forse è paura del virus, forse sei nuova, forse cambierai di nuovo lavoro.
Ovidiu è moldavo, sui 40. Il pacco con le mascherine lavabili me lo ha lasciato al portone. Mi ha aspettato lì, divisa da corriere, barba sfatta, maniche corte anche se faceva freddo. Nessuna protezione, fanculo, lui è abituato alla brutale Chisinau. Volevo almeno dirgli che sogno da sempre di andarci (sul serio!) ma, appena sono arrivato a prendere il pacco, è volato via più veloce della luce.
Marco fa il corriere anche lui, meno di trent’anni sicuro. Mi ha lasciato una scatola con tre vinili originali, no ristampa grazie. Nick Drake per nutrire il mio ego malinconico, i Blur per nutrire il mio ego vanesio che si sente ancora un ventenne, i Killing Joke per nutrire il mio ego oscuro. Ci sono proprio tutte le mie personalità dentro a quel pacco, ma Marco questo non lo sa, gliene parlerei anche, ma non ha mica tempo. Mi saluta di sfuggita e riprende il camion.
Vedo tante persone in quarantena, a volte più di quante ne vedevo nel mondo di prima. Mi sento quasi un animale sociale a ospitare tutte queste anime sulla soglia di casa mia, per giunta indossando una tuta. Ma prima o poi tornerà la normalità.
E tornerò a procacciarmi la cena in un unto takeaway berlinese, senza che debba guardare nessuno negli occhi.

in copertina Anton Semenov – Sunday evening

Incantevole (Racconti isolati)

Rabbit on the moon

CAPITOLO VIII – 16 APRILE DI NOTTE

(suggestione sonora: Kid Francescoli – Moon)

È notte, sono le due. Sono sul terrazzo a fumare la Sigaretta del Silenzio. Non è successo niente neanche oggi. Non nella mia vita. La noia sta avanzando inesorabile anche per me; la scaccio e ritorna. Questo momento però, è sacro. Di giorno la gente ha ricominciato ad andare in giro, non è tanta, ma c’è.
Ma di notte ti accorgi più che mai di ciò che è cambiato.
Immagina un incrocio tra quattro arterie importanti del quartiere. Immaginalo alle due di una notte normale. Macchine sparate a velocità elevata bruciano il semaforo spento, ogni tanto qualcuno inchioda e lascia la sindone delle gomme sull’asfalto. Quella che vedrai ancora nitida il giorno dopo passando da lì.
Moto che partecipano al gran premio della notte: mi dicono che da queste parti facciano le scommesse su chi vince. Da via dei Prati Fiscali a Fidene con la bandiera a scacchi pronta a sventolare, così come le carte da cento euro sotto il naso di chi si aggiudica la gara clandestina. Ogni tanto qualcuno che urla, vai a sapere se ha bevuto o fumato troppo, se è incazzato con la fidanzata, se è al telefono con un amico, se è il pusher che vuole i suoi soldi dal tossico squattrinato.
Persino l’autobus notturno che sbuffa e precipita ad andamento sostenuto fino alla stazione Termini. Le luci accese dei chioschi dei fiorai sempre aperti. Qualche insonne che approfitta per portare a spasso il cane. Insomma una notte normale, di quelle che il silenzio si rompe spesso. Se stai per dormire ti accorgi dell’ultima moto, ti concentri sul ticchettio dell’orologio accanto a te e alla fine, forse, se quel rumore sa accompagnarti bene, ti addormenti.

Ora immagina lo stesso incrocio senza vita. Le quattro strade completamente deserte, i semafori spenti che lampeggiano come sempre. Nessuna macchina che corre, nessun moto gp, voci rarissime e lontanissime, forse una volta ogni tre notti. Le luci dei fiorai non ci sono. Forse c’è qualcuno col cane, forse no.
I rumori sono diversi: la sigaretta che hai in bocca insieme al sapore dell’ultima birra che hai bevuto tre minuti prima, crepita. Come nei film che la senti in dolby surround. Normalmente non la sentiresti, non a ogni tiro che fai. Invece puoi ascoltarla e immaginare di essere il cattivo di turno che osserva la città bramandone la conquista; perché nei film contemporanei sono più i cattivi che i buoni a fumare, si sa. I semafori lampeggiano, ma incredibilmente riesco a sentirne il bip a ogni luce gialla che si accende. Ogni-singolo-secondo: è il ritmo monotono e meccanico delle mie notti di quarantena in terrazza. I rapaci notturni fanno versi strani: ho cercato di riconoscerne la specie su YouTube in quei video per bird watchers. Niente da fare, questi uccelli non sono catalogati, forse vengono dallo spazio o che ne so io, dal nord Africa.
Ogni tanto il vento muove appena le foglie nuove di zecca degli alberi e il tricolore appeso al balcone di fronte, ma stanotte è davvero calma quasi piatta.
E la periferia di Roma, il tuo terrazzo, diventano la Luna. Quella che guardi in alto nel cielo in mezzo a qualche sporadica stella è evidentemente la Terra: per errore sei finito sul più famoso dei satelliti naturali e non sai se sia meglio tornare indietro o restare lì ad ascoltare il silenzio irreale della metropoli.
Lontano dalla mattina, dalle ultime notizie sul virus in tv, dal continuo inutile borbottare dei social, persino dalla noia. Che te la sei dimenticata per un po’. Non ti sono mancate le persone, le cene fuori, gli aperitivi, le sbronze al pub, i concerti, le mostre, i viaggi, Berlino, lei, noi, loro e tutti i cazzo di pronomi personali che ti vengono in mente. E l’impotenza di non sapere nemmeno con chi prendertela per questa cosa troppo più grande di te.
Finirà.
Per una sola cazzo di volta voglio essere stupido e pensare positivo come non faccio mai: ce la ricorderemo tra una birra bevuta a canna, un nugget di pollo troppo unto,  una grappa di pregio condivisa a tavola per digerire, una risata sguaiata, una divergenza di opinioni perché secondo qualcuno le cose non dovevano andare così, una riconciliazione perché stare vicini rende tutto più facile, anche col distanziamento sociale.
Nel mentre, in molti si raccomandano di pensare, di tenere la mente accesa perché qualcuno ci sta fregando, dobbiamo uscire, la costituzione è stata violata, ci sarà la recessione peggio del ’29 e vogliamo andare al mare.
Fatelo voi, io ho già pensato troppo in passato. Lasciatemi questo silenzio totale che stanotte è troppo bella per distruggerla con l’ennesimo vaffanculo urlato nel vuoto.

in copertina Luke Chueh – Rabbit on the Moon

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CAPITOLO VII – SWEET HOME QUARANTENA

(suggestione sonora: Stevie Wonder – Don’t you worry ‘bout a thing)

È la mattina di Pasqua.
Probabilmente non si uscirà ancora per un bel po’, di certo non il 25 aprile e il primo maggio, a dispetto di quelli che scalpitano.
Da piccolo ero un bambino tranquillo, mi piaceva stare a casa e giocare con i miei giocattoli ed ero perennemente in ansia se qualcuno me li toccava. Non mi piaceva particolarmente stare all’aperto, giocare a pallone, andare in piscina, rotolarmi nei prati, correre per acchiappare qualcuno, sudare. E soprattutto, se mi dicevano di fare una cosa, difficilmente disobbedivo.
Sarà per questo che non mi è mai venuto in mente di lamentarmi di non poter uscire durante la quarantena, soprattutto sui social network. Quelli che pestano i piedi, che forzano i blocchi, che scambiano misure restrittive per dittatura, evidentemente da piccoli erano dei bambini rompicazzo. Quelli che non avrei frequentato, a meno che non mi fosse stato imposto dall’amicizia tra le mamme. Quelli che se non fossi stato oltremodo timido avrei spintonato via, lontano dai miei giochi.
È ovvio che voglia uscire anche io, è ovvio che voglio che tutto riprenda a scorrere, ma se mi è stato detto di non farlo per la mia salute, mi metto l’anima in pace. Può darsi sia incapacità delle istituzioni a inventarsi una fase 2? Sì, può darsi.
Tuttavia non cambia molto il concetto: se esci e te ne freghi degli altri sei una testa di cazzo egoista, con dei limiti evidenti di cervello. Ti senti superiore, sì, e condividi il video del guru che la pensa come te che chissà come mai, è un altro fallito che si sfoga solo su YouTube. Oppure, vai a scovare l’articolo dell’unico intellettuale che per puro culo, condivide il tuo pensiero e la tua ideologia. Oppure ci racconti che il complotto a cui credi è supportato da un medico radiato dall’albo perché diceva la verità.
La verità voglio rivelartela io, amico mio: della tua opinione alla gente non frega un cazzo, esattamente come non gli importa della mia, che tengo gelosamente per me.
Non mi sono ancora del tutto disintossicato da Facebook e Twitter: ogni tanto ancora ci casco e mi lascio andare alla perversione di leggere questo pregiato potpourri di imbecilli. Impreziosito peraltro dai tifosi che si esaltano per le maldestre conferenze stampa del presidente del Consiglio.
Fossi stato a Berlino forse sarei stato meno noioso; l’Italia mi fa male, lo so da sempre, altrimenti non me ne sarei andato.
Ma mica perché ci siano più cretini che in Germania, ci mancherebbe. È solo che lì i social non li leggevo più:  ci lavoravo e basta. O al limite, li usavo per le mie indagini da detective per caso.

Cerco di essere più buono, dai: Pasqua, dicevamo.
Avevo programmato tutto con la mia ex compagna, che qui non chiamerò mai per nome. Avevo programmato di non programmare.
La Pasqua a Berlino, in fondo, non è tanto diversa dalla nostra anche se ha connotazioni meno religiose.
Però ci sono le uova di cioccolato, i conigli, i pulcini, i messaggi copincollati di Frohe Ostern con le emoji dei conigli, dei pulcini, dello spumante, della birra. Tutto uguale, persino il fatto che si mangia l’agnello.
Prevale l’aspetto stagionale come in tutti i paesi nordeuropei: si festeggia la primavera. Qui invece, per spiegare e addolcire il concetto di morte, ci siamo inventati una religione partendo proprio dalla Pasqua. In fondo, primavera o resurrezione, sempre di rinascita parliamo. Tranne della mia che preferisco l’inverno.
Avremmo organizzato un pranzo ricco e non sarebbero mancati i cetriolini sottaceto: come fanno a mancare su una tavola tedesca? Avremmo unito le tradizioni italiane e tedesche, come facevamo per ogni festività. Poi magari, dopo un pomeriggio pigro davanti alla consueta maratona televisiva pasquale di Tatort, verso le 18 saremmo usciti a fare due passi, magari arrivando a Gendarmenmarkt o in qualche parco a osservare i rami fioriti di metà aprile. Saremmo rientrati a casa, avremmo messo Innervisions di Stevie Wonder e ci saremmo messi a ballare. Questa era la mia vita prima che le cose precipitassero. E vorrei dire a quelli che urlano perché vogliono uscire, che io ci ho rimesso tanto a causa di questo virus. Ci ho rimesso pure lei. Chissà se ci saranno margini per tornare insieme quando tutto questo sarà finito. Chissà quando potrò prendere un aereo per chiarire. Intanto almeno ci siamo scambiati gli auguri e abbiamo fatto due chiacchiere formali su Whatsapp. È sola anche lei.
Qui comunque si sta bene. Mi sono preparato la colazione di Pasqua alla romana: salame corallina scelto accuratamente perché se non è morbido non puoi nemmeno addentarlo, uova sode, pizza di Pasqua al formaggio. Niente coratella coi carciofi che non mi piace. In 42 anni non avevo mai fatto la colazione pasquale alla romana: è la novità di questa giornata di pasquarantena. Magari più tardi, se ho ancora fame, mi faccio un’amatriciana.
Metto su il vinile di Stevie Wonder, non ballo da solo, accendo una sigaretta, guardo fuori, sospiro, mi annoio ed è forse la prima volta dall’inizio di questo casino: poi mi passa.
Dont’ you worry ‘bout a thing, mama.

 

in copertina Mark Bryan – Too Much Bunny

Incantevole (Racconti isolati)

Uncle+Hershel+Enjoys+An+Egg+Cream+150dpi

CAPITOLO VI – LA FINE DEL BUFFET

(suggestione sonora: Subsonica – La Glaciazione)

Le liste sono un ottimo modo per passare il tempo. Non sai cosa fare? Scrivi una lista. Le infinite possibilità offerte da questo sistema di ragionamento possono farti trascorrere molte ore stimolanti in compagnia di te stesso.
È quello che mi è successo anche oggi. Mi sono alzato alle quattro di mattina perché mi frullava in testa una cosa: tra i tanti articoli, servizi, cazzate che circolano sul “dopo”, non ce n’è uno che dia notizie certe su certe nostre abitudini che prima erano normali ma che, alla luce di ciò che ormai è irreparabilmente accaduto, scompariranno. E grazie al cazzo, Straniero, non ci sono certezze adesso! E tu che sei così incline alle novità e alle incognite, ne godi segretamente!
Il processo che si insinua nel mio cervello è più semplice di quanto si possa pensare. Prende il via con un’ansia strisciante che si trasforma in voglia di nuovo che poi si trasforma di nuovo in ansia strisciante, fin quando anche quella novità si sarà evoluta in routine e andrai a cercarti qualcos’altro che ti metta nuovamente addosso quel giusto mix di ansia e friccicore.
Così ho cominciato a fare la lista delle consuetudini che abbandoneremo, con le idee confuse di chi non riesce a dormire.
Confuse, ma  comunque incredibilmente più lucide di quelle che hai durante il giorno.
Sì vabbè, dalla lista levo subito quelle scontate: abbracciarsi, stringersi la mano, viaggiare sul sedile di un treno o un aereo accanto a uno sconosciuto, andare a cena  fuori in più di quattro persone. Un giorno torneremo a farlo. E quel giorno non sarà nemmeno relativamente così lontano. Almeno credo. Ma ce ne sono alcune più subdole. Ho cercato anche di ricostruire temporalmente quando le ho fatte per l’ultima volta. Che potrebbe davvero essere stata l’ultima.
Comincio.

– Prima di tornare a provare un abito nel camerino di un negozio, ci penseremo bene: chi mi dice che quando qualcuno si è infilato la maglietta più figa del pianeta e poi l’ha lasciata lì, non fosse positivo? Per infilarla passi dalla testa e, soprattutto se è un po’ stretta, le possibilità che tocchi la bocca, il naso, gli occhi sono davvero molto elevate.
Sarà la fine di quelli come me, che raramente acquistano abbigliamento on line perché se poi non mi sta bene devo cambiarlo con tutto il noioso balletto di resi e corrieri che ne consegue.
Quando mi è successo l’ultima volta?
Provo a ricordarlo: ero in un negozietto alternativo a Prenzlauer Berg, Berlino, poco prima di Natale 2019. Una t-shirt con Cthulhu disegnato sopra. Carina, ma la taglia era troppo grande. Un acquisto fallito: non ho nemmeno il cimelio per raccontare questa storia ai miei nipoti inesistenti. Inesistenti almeno finché quella pazza di mia sorella Caterina non deciderà di regalarsi un erede in quel di Copenaghen.

– Mi fai assaggiare la tua birra? Bere dallo stesso bicchiere di qualcuno: da piccolo mi avevano insegnato che non si fa. MAI. Poi però quando cresci, le parole dei tuoi genitori volano via. Un giorno, a proposito di liste, potrei provare a calcolare da quanti bicchieri di qualcuno ho bevuto e quante persone lo hanno fatto dal mio. Adesso ci sarebbero gli estremi per un attacco di panico violento, di quelli che devi fermare tutto e respirare profondamente sdraiato sul letto, pregando che tra due settimane quel letto non diventi quello di un reparto di terapia intensiva.
Quando mi è successo l’ultima volta?
Questa me la ricordo bene: ero con il mio amico Donato Frappampina, che di mestiere fa il debunker. Appena tornato a Roma dalla Francia, prima che chiudessero tutto. Abbiamo preso due birre in bottiglia in un pub qui dalle parti del Nuovo Salario. Quelle artigianali con le etichette accattivanti e colorate. Io una lager polacca, lui una rossa triplo malto belga. Ti portano i bicchieri, ma si fa prima ad attaccarsi alla bottiglia da 33 cl, anche per il reciproco assaggio. Lui già nicchiava perché, se fai il debunker di professione, frequenti i siti web di tutto il mondo. Anche cinesi. Sapeva che se questo virus avesse attecchito ovunque, quel gesto così conviviale e poco igienico, sarebbe diventato proibito di lì a pochissimo. Risatina sarcastica sua, sguardo preoccupato mio. So bene che se Donato prevede qualcosa, di lì a poco succede.

– E le canne? Se non sei egoista, la canna la fumi in compagnia. Te la passi al massimo con tre, quattro persone. Di più no, dai, che cazzo fumi poi?
Ma adesso? Davvero vincerai dopodomani la paura del contagio per fumare in compagnia un pezzo di tronco marcio spacciato per hashish? Davvero riuscirai a fregartene per aspirare voluttuosamente la tua razione di trifoglio che ti hanno venduto come ottima marijuana solo per gustarti l’effetto placebo?
Quando mi è successo l’ultima volta?
È passato del tempo. Era la maledetta notte del 19 dicembre 2016, mi trovavo a Berlino nel mio appartamento spartano al residence Obst distretto di Moabit. Annalisa nel mio letto in preda a una crisi di nervi dopo l’attacco terroristico ai mercatini di Natale tira fuori l’erba e mi chiede istericamente una sigaretta per sviscerarne il tabacco e fabbricare il suo presunto calmante. Ce la siamo divisa senza trovare alcun giovamento e la mattina dopo, lei se n’è andata via. Questa era ancora più facile da ricordare: una coltellata al cuore.

Spesso quando fai una lista, finisci con il soffermarti sulla voce che più ti colpisce, perché è quella che incide di più. La superstar della playlist se si tratta di musica, per esempio. O il piatto forte del menù. Ciò che inevitabilmente può portare a interrompere l’elenco perché genera pensieri e ricordi a cascata o semplicemente, ingolosisce.

– Il buffet. Sì! Ecco, il buffet non esisterà più. È praticamente impensabile che possa tornare a esistere anche tra dieci anni. Nessuno perderà più la dignità sgomitando davanti a piatti drammaticamente indifesi da qualsiasi germe. È la fine dell’apericena a buffet, dei matrimoni col buffet degli antipasti e dei dolci, delle mense self service, dei ristoranti fai da te in Autogrill, della pizza con la mortazza offerta alle inaugurazioni dei negozi, di patatine e noccioline sul bancone del bar, delle tapas e dei pintxos in Spagna, forse anche dei conviviali buffet ai congressi di stimati professionisti o di quelli in azienda, condivisi da alte sfere e sottoposti, di quelli ricchi e smisurati sulle navi da crociera e perfino delle feste delle medie tra i panini al burro e salame e i tramezzini col tonno e l’uovo sodo. I bicchieri col nome scritto sopra a pennarello forse resteranno. Guarderemo nostalgicamente le immagini di quando tutto questo era normalità, compartecipazione, calca, cafonaggine. A me i buffet tutto sommato non mancheranno.
Quando mi è successo l’ultima volta?
Sarà stato ottobre dell’anno scorso. Ho rivisto la mia amica ricercatrice botanica Selene De Cesaris dalle parti di piazza Fiume, a Roma. Ero tornato a trovare i miei un weekend che i voli da Berlino costavano poco. Con lei non ci vedevamo da tempo. L’ultima volta eravamo stati felicemente a letto insieme, poi mi sono messo con quella che adesso è la mia attuale ex compagna. Abbiamo deciso di festeggiare nel modo più semplice possibile: cenando in panetteria. Tutto cibo rigorosamente squisito, genuino, fragrante, tutto scelto da un piccolo buffet.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che solo qualche mese dopo, le persone avrebbero ricominciato a farsi il pane in casa. Un po’ per necessità, un po’ per moda perché gli amici sui social lo fanno tutti.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che la farina sarebbe sparita dagli scaffali dei supermercati così di botto, senza senso.
Selene la sto sentendo di nuovo in questi giorni: credo che le ricorderò del nostro ultimo incontro che resterà nella storia perché l’alba della nuova società non prevede il buffet. Estinto, come un diplodoco dopo la glaciazione.

in copertina Travis Louie – Uncle Hershel enjoys an egg cream

Incantevole (Racconti isolati)

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CAPITOLO V – IL VIAGGIO SU GOOGLE MAPS

(suggestione sonora: I Cani – Calabi-Yau)

La quarantena ormai diventerà una settantena o anche di più. Non mi interessa contare i giorni, l’ho già detto. Sono qui, da solo, in un appartamento alla periferia di Roma nord. Ho birra, sigarette e noccioline pastellate alla paprica: non mi manca proprio niente. Anzi sì, mi manca viaggiare. Il mio nome è Andrea Straniero e sono un viaggiatore di professione.
Ho visitato diversi paesi nella mia vita, ho visto diversi mondi, diversi modi di affrontare una giornata in luoghi così differenti tra loro. Roma poi è tante città nella città. Se sei cresciuto a Roma nord – e non in periferia – hai vissuto in un mondo fatato, lontano dalla realtà dei luoghi meno borghesi di Roma sud-est. Poi hai cambiato abitudini e hai cominciato ad allontanarti da quel mondo fatato con cui non avevi più nulla a che fare, gente barocca che non si è spostata di mezzo metro dall’ombra dei genitori e dei loro lavori ingombranti. Ma questo non ti ha reso automaticamente cittadino della parte più proletaria di Roma, no. Anche perché non volevi esserlo, non ti è mai interessato nemmeno essere come uno di periferia, fiero di essere nato e cresciuto in periferia. Sei rimasto nel mezzo, avulso da entrambi i modi di vivere la città. Straniero, appunto. Non rinnego ciò che sono stato, non rinnego ciò che ho provato a essere e non rinnego ciò che sono adesso.
E non ho rimpianti, quasi.
Viaggiare, muoversi, poter uscire. Tutte cose che in questo momento sono impossibili. Mi è capitato in questo cluster della mia esistenza: sono bloccato a Roma, non sono potuto tornare a Berlino e ho rotto una relazione a cui tenevo. Le conseguenze che ognuno di noi subirà da questa storia che solo qualche mese fa ci sarebbe sembrata la trama di un film apocalittico, sono incalcolabili.
Allora, ho provato a viaggiare su Google Maps. E nel farlo, ho riconosciuto almeno cinque luoghi importanti per la mia evoluzione. Il passo immediatamente successivo è stato quello di immaginare ciò che il lockdown mi avrebbe tolto in un altro periodo della mia esistenza.
Cinque luoghi, cinque storie belle.

1) Via Cola di Rienzo, Roma.
Le prime uscite pomeridiane, insieme a un amico delle medie, partono da lì, dall’arteria che taglia in due Prati partendo da San Pietro e in un chilometro e mezzo ti conduce fino al ponte Margherita che a sua volta ti catapulta a piazza del Popolo. Pochi autobus a disposizione per chi veniva come noi dalla Balduina, quartiere arroccato sulla collinetta di Monte Mario. Io e il mio amico Marco Bonini avevamo in comune la passione per la musica e per il cinema. Quasi inevitabile per chi ha assorbito per intero il decennio pop per eccellenza: gli anni Ottanta. Le tappe di quelle uscite che ricordo a malapena ci portavano spesso nel quartiere Prati o al centro di Roma, sospesi tra due sponde del Tevere più o meno alla stessa altezza: da una parte la lingua di terra con sopra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, dall’altra piazza Navona e il dedalo di bellissime viuzze che la circondano e via del Corso con i suoi negozi non ancora globalizzati pieni di colori fluo in vetrina.
Il quartiere Prati, che oggi trovo soffocante a causa delle sue strade tutte uguali, dei suoi palazzi pesanti anneriti dallo smog, degli alberi malati e pieni di uccelli che sporcano i marciapiedi, dell’impossibilità di trovare un fottuto parcheggio per la macchina, fu allora la mia educazione culturale in ogni campo. Negozi di dischi, memorabilia del cinema, noleggi di film in VHS, libri, rosticcerie, i primi fast food aperti a Roma, in certi casi scomparsi dopo poco tempo. Quelle uscite formarono il mio carattere e il mio modo di essere. Avevo quattordici anni e una smisurata curiosità di conoscere, di uscire, di prendere la metro A ed esplorare quella che, cominciavo a capirlo, era la mia città. La città più bella del mondo, lo dico senza timore di essere smentito: ho appena guardato uno di quei video con la città deserta e mi sono commosso. Una città senza stimoli purtroppo da tanti anni. Eppure bella di una bellezza disarmante, che non può non riempirti il cuore.
Se l’avessero chiusa allora, proprio mentre iniziavo a staccarmi da casa, i miei quindici anni sarebbero stati più poveri. Non avrei coltivato quell’amicizia così importante per l’epoca, non avrei potuto ammirare Roma, non avrei soddisfatto la mia curiosità. Lo avrei fatto dopo? Chissà. Qui non sappiamo ancora cosa cazzo c’è, dopo.

2) Piazza Colonna, Roma.
Vado qualche metro più avanti con il cursore del mouse ed eccomi qui, qualche anno dopo, ne avrò avuti una ventina o poco più, cercando di dimenticare una ragazza. Per farlo dovevo distrarmi, andarmene il più possibile in giro, bere, fumare, fare tutto quello che siamo in grado di poter fare a vent’anni. Mettere il fisico alla prova, farlo resistere, imparare a conoscerne i limiti. E cercare di innamorarmi di nuovo, di più. Fu così che quel giorno decisi di uscire e andarmene in giro per il centro di Roma, da solo, senza l’amico dei quattordici anni. Camminavo a testa bassa nei pressi di piazza Colonna, proprio di fronte alla bellissima Galleria Colonna, che di lì a qualche anno avrebbe preso il nome di Alberto Sordi. Un incontro fortuito con degli amici e una ragazza nuova con loro, mai vista. Maria Sole, un nome quantomeno particolare. Un colpo di fulmine senza precedenti. Aveva i miei stessi interessi, quegli interessi che qualche anno prima avevo costruito andando in giro per il quartiere Prati. Tutto ha un senso, tutto torna. Maria Sole è stata una storia breve, intensissima, che sarebbe potuta durare una vita. È finita presto, mi è costata altri litri di alcol, altri chili di nicotina, altre donne da trattare male, altre donne che mi hanno trattato male, ma quelle sensazioni così pazzesche, uniche, me le porto dietro da sempre e non se ne vanno più via.
Con il lockdown in corso, probabilmente, non l’avrei mai incontrata, abbracciata, baciata. E se qualcuno adesso si stesse perdendo una cosa così? L’unico vantaggio è che non lo saprà mai.

3) Via Flaminia 1060, Roma.
Ancora qualche anno dopo, eccomi in un parcheggio all’altezza di Grottarossa. Sono già diventato quello che sono adesso. Un cazzone con la felpa col cappuccio e le sneakers. È sera e il cielo è gonfio di pioggia. C’è un concerto gratuito di un gruppo giovane che ho imparato ad apprezzare, voglio vederli alla prova dal vivo. Sono i Subsonica. È il mio primo vero live. All’aperto, in un parcheggio scasato in mezzo alla campagna. Dopo un po’ inizierà a piovere, ma la voglia di ballare e cantare non diminuirà e non se ne andrà mai più. Cantare a squarciagola in mezzo ad altre persone con i tuoi stessi gusti che sono lì per fare la stessa cosa è qualcosa di unico.
A quel live ne sono seguiti tantissimi: l’idea che questo maledetto virus possa privarci della musica dal vivo mi tortura. E se quel giorno il problema non fosse stato la pioggia, ma l’impossibilità di stare insieme ad altre persone? Ci sarebbe stato il mio primo live? Quando? Non so rispondere nemmeno a questo, maledizione.

4) Zoologischen Garten Bahnhof, Berlino.
Trent’anni e un viaggio poco convinto a Berlino. Appena sceso dal treno, alla stazione dello Zoo, cambia tutto. Come quel colpo di fulmine a piazza Colonna. Stavolta ciò che mi colpisce è la città, la sua aria frizzante, gli odori di cibo etnico, le scritte luminose sui grattacieli, il cielo grigio. Ancora non lo sapevo ma Berlino sarebbe diventata la mia seconda città. L’unica per cui ho tradito Roma. Quella in cui sono riuscito a trovare un lavoro, Claudia, Annalisa e il brivido che mi mancava a casa mia. Di brividi ne ho sentiti anche troppi a dire la verità, ma ogni volta che sono lì mi sento in stato di grazia. Ho imparato a conoscere la sua anima mutevole e ho deciso che somiglia alla mia. Viaggiare, prendere un aereo, andare lì e tornare a Roma solo quando ne sento un po’ la mancanza. Tutto facile prima. E adesso? Adesso mi accendo una sigaretta e osservo il mondo dal terrazzo. Non sento più gli aerei volare, non li vedo passare spesso come prima. La mia vita senza Berlino non sarebbe stata la stessa. Ora mi manca da matti, ma se quel viaggio poco convinto avessi dovuto annullarlo, avrei mai deciso di rifarlo?

5) Cabo da Roca, Portogallo.
Il mio rapporto con il mare è complesso. L’ho amato finché non ho cominciato a tollerare poco il caldo, sempre più forte dopo quella maledetta estate del 2003 che ha cambiato per sempre il clima del pianeta. Avevo trentacinque anni quando ho deciso che la vita di mare in estate non faceva più per me. La gente, la sabbia, il fastidio, il non saper che fare sdraiati lì al sole, un bagno ogni tanto e aspettare disperatamente l’ora dell’aperitivo per avere qualcosa di cui godere appieno. Poi, passato qualche anno – mi trovavo a Sintra tra la fine di luglio e l’inizio di agosto – decisi di andare a guardare il tramonto in uno dei posti più alieni d’Europa percorrendo in macchina diciassette chilometri di strada tra i più suggestivi al mondo.
Cabo da Roca mi ha fatto riappacificare con il mare. Un oceano smisurato, il punto più a ovest d’Europa, oltre quel blu, a migliaia di chilometri, c’è l’America. Un faro, il vento tipico da fine del mondo, le distese di carpobrotus fioriti sulla sabbia fredda. Stare lì per oltre un’ora a guardare la roccia a strapiombo sul mare mentre cerchi di catturare in duecento scatti il sole che va via, mi ha riconciliato non solo con il mare ma anche con il mondo.
Se non ci fossi stato, odierei ancora il mare.

Chiudo Maps. E mi dispiaccio per chiunque stesse per vivere un’esperienza che gli avrebbe cambiato la vita. Adesso che è tutto chiuso, adesso che non è possibile.

in copertina Jason Limon – Ghost aflame

Incantevole (Racconti isolati)

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CAPITOLO IV – NOT TO DO LIST

(suggestione sonora: Pulp – Bar Italia)

È sabato mattina. Tutto sommato, non ho avuto difficoltà a ricordarmi che giorno è perché nel fine settimana faccio una colazione meno frugale: al posto delle fette biscottate, al mio immancabile earl grey accompagno dei biscotti al cioccolato. Almeno cinque o sei tipologie diverse per non annoiarmi. Non è certo la quarantena a fermare le buone abitudini.
Devo decidere come trascorrere la giornata di oggi e non so ancora se provare a girare la trottola di Inception perché c’è il rischio che perda tempo a guardarla roteare e in un attimo arrivi l’ora di provare a combattere l’insonnia.
Comincio allora a elencare quello che non farò.
Non ho animali con cui giocare, mi piacerebbe un gatto, ma adesso non posso proprio. Il cane no, invade eccessivamente la mia privacy e dopo cinque minuti mi ha già rotto i coglioni. Molti lo usano come grimaldello per uscire, io ne faccio a meno: porto a spasso la spazzatura, che sporca meno.
Non voglio andare a trovare i miei genitori perché non voglio rischiare di contagiarli. C’è chi mi ha detto che non gli voglio bene, io credo sia il contrario. Invece tu che vai da loro e li fai rischiare sei un cretino. Ma l’egoismo è troppo difficile da spiegare al prossimo, meglio dar ragione a loro, sperando che prima o poi non si macchino di parenticidio.
Non farò sexting in video con Alice, studentessa fuori sede marchigiana di 24 anni che vive e si annoia da sola a Torpignattara. L’ultima volta, mentre si spogliava, ha commesso inspiegabilmente l’errore di parlare del virus e mi ha tirato fuori una bufala terribile peraltro già ampiamente smentita. Le ho chiesto se davvero ci credeva, ne è nata una polemica surreale. Io in mutande, lei incazzata che si teneva il reggiseno con una mano. Volevo solo insegnarle a distinguere le bufale dalla realtà, ma l’ha presa male.  Quando le ho detto di stare tranquilla e cercare di non avere complessi di inferiorità nei confronti di un quarantenne, l’ha presa ancora peggio: si è tolta definitivamente il reggiseno, lo ha tirato contro lo schermo e mi ha mandato affanculo. Bastava non aprire bocca in un momento del genere, no? Ne cercherò un’altra, ma oggi non mi va.
Non parteciperò ad alcun tipo di catena: i miei amici hanno talmente paura di quello che posso rispondergli, che non ci provano più. Scorrendo i social vedo foto sbiadite di diversi anni fa e tanti che dicono sfida accettata. Ma quella delle foto da piccoli non l’avevano già fatta? In più, oltre a loro, ci sono anche quelli che si lamentano delle catene, che in pratica fanno parte di un’altra noiosa catena.  Sono sedici anni che la stessa gente partecipa alle stesse catene: ho visto il tuo album di famiglia, so che hai paura di volare, che ti senti figa perché una volta a 17 anni hai vomitato dopo aver bevuto ed è così punk ricordarlo adesso che sei mamma e i figli ti vomitano sulla spalla. Non ci si stanca mai di parlare del proprio passato, forse perché è rassicurante farlo, soprattutto in un momento in cui il futuro è sospeso.
Dell’ultimo punto però, non sarei così convinto: è la prima pandemia che affrontiamo, eppure questo modo di comunicare esiste e persiste da quando sulla terra proliferavano i telefoni GSM. Mi chiedo se anche ai tempi della Spagnola qualcuno chiuso in casa condividesse col resto dei familiari i dagherrotipi seppiati antecedenti alla Grande Guerra. O ci si facessero domande del tipo: ti sei mai sballato con l’eroina della Bayer, quella per curare la tosse?
Non guarderò La casa di carta perché non mi ha mai ispirato. Tuttavia, se serve a togliere di mezzo le persone dai social, ben venga. Basta che poi non ne facciano il riassunto completo ovunque, ma sarebbe già chiedere troppo.
Non fotograferò il cibo che mi preparo e soprattutto, le foto della panificazione hanno rotto il cazzo. Una volta ho provato a farmi la birra da solo e non ho attaccato i manifesti da nessuna parte, tanto più che poi faceva schifo.
Non analizzerò la situazione politico-sanitario-economica su Facebook: non ne ho le competenze. Essendo però uno che interpreta i social per lavoro, ho le competenze per dire che quelli che lo fanno hanno rotto il cazzo, come e peggio dei panificatori.
Titilliamo il nostro ego quando troviamo una fonte, autorevole o meno, che conferma il nostro ragionamento.

Sulle passeggiate coi bambini avevo ragione io che sono madre!
Sul farmaco sperimentato in un laboratorio subacqueo in Kirghizistan avevo ragione io che volevo ordinarlo al mercato nero!
Sulle mascherine cinesi avevo ragione io che i cinesi li ho sempre ritenuti dei copioni truffatori!
E, Andrea,  che mi dici del complotto?
– Quale complotto?
– Uno, parlami anche di un solo complotto dei tanti che hanno messo in atto per diffondere il virus: per esempio ci stanno uccidendo e nessuno lo dice!
– E grazie al cazzo, se te lo dicessero che complotto sarebbe? Se proprio ti annoi puoi leggere qualche teoria sulla cospirazione e poi possibilmente farla finita ingerendo un tubo di Vinavil. Tanto se ti senti una marionetta nelle mani di non ben identificati poteri forti e pensi di opporti a tutto questo con una petizione on line, non ti resta che sparire.

Amico, che ti piaccia o no, finché non troviamo il modo di viaggiare nel multiverso, dovrai tenerti questo mondo. Con le goccioline infette, i conigli che invadono i parchi urbani e le tasse che incombono.
Prevaricare l’opinione altrui, urlare rabbia o postare stronzate: la pandemia social fa male al cervello prima che ai polmoni.
Che faccio quindi oggi?
Credo che la soluzione migliore sia, come ogni giorno, ignorare la pandemia e tutto ciò che la riguarda. E attendere pazientemente che arrivi quel momento, il momento in cui tutto tornerà com’era prima. No Andrea, non tornerà tutto come prima. Forse mai più.
Allora riformulo: attendere con pazienza che arrivi il momento di uscire liberamente, sperando di avere ancora qualche soldo in tasca. Fino ad allora tutte le notizie saranno delle non-notizie. Persino il freddo counter dei morti delle ore 18 ormai è diventato come quello di un videogame: se non ti tocca da vicino non ci fai quasi più caso e nemmeno ti arriva un bonus munizioni.
Sì, ho deciso: oggi faccio i miei proverbiali supplì al ragù, non li fotografo ma li mangio, metto su due o tre vinili, mi guardo Absentia, una serie tv sufficientemente angosciante, poi parto per un viaggio su Google Maps e magari ve lo racconto un altro giorno.
Anche oggi, per me, la noia non esiste.

 

in copertina Luke Chueh – Personal Space