CAPITOLO V – IL VIAGGIO SU GOOGLE MAPS
(suggestione sonora: I Cani – Calabi-Yau)
La quarantena ormai diventerà una settantena o anche di più. Non mi interessa contare i giorni, l’ho già detto. Sono qui, da solo, in un appartamento alla periferia di Roma nord. Ho birra, sigarette e noccioline pastellate alla paprica: non mi manca proprio niente. Anzi sì, mi manca viaggiare. Il mio nome è Andrea Straniero e sono un viaggiatore di professione.
Ho visitato diversi paesi nella mia vita, ho visto diversi mondi, diversi modi di affrontare una giornata in luoghi così differenti tra loro. Roma poi è tante città nella città. Se sei cresciuto a Roma nord – e non in periferia – hai vissuto in un mondo fatato, lontano dalla realtà dei luoghi meno borghesi di Roma sud-est. Poi hai cambiato abitudini e hai cominciato ad allontanarti da quel mondo fatato con cui non avevi più nulla a che fare, gente barocca che non si è spostata di mezzo metro dall’ombra dei genitori e dei loro lavori ingombranti. Ma questo non ti ha reso automaticamente cittadino della parte più proletaria di Roma, no. Anche perché non volevi esserlo, non ti è mai interessato nemmeno essere come uno di periferia, fiero di essere nato e cresciuto in periferia. Sei rimasto nel mezzo, avulso da entrambi i modi di vivere la città. Straniero, appunto. Non rinnego ciò che sono stato, non rinnego ciò che ho provato a essere e non rinnego ciò che sono adesso.
E non ho rimpianti, quasi.
Viaggiare, muoversi, poter uscire. Tutte cose che in questo momento sono impossibili. Mi è capitato in questo cluster della mia esistenza: sono bloccato a Roma, non sono potuto tornare a Berlino e ho rotto una relazione a cui tenevo. Le conseguenze che ognuno di noi subirà da questa storia che solo qualche mese fa ci sarebbe sembrata la trama di un film apocalittico, sono incalcolabili.
Allora, ho provato a viaggiare su Google Maps. E nel farlo, ho riconosciuto almeno cinque luoghi importanti per la mia evoluzione. Il passo immediatamente successivo è stato quello di immaginare ciò che il lockdown mi avrebbe tolto in un altro periodo della mia esistenza.
Cinque luoghi, cinque storie belle.
1) Via Cola di Rienzo, Roma.
Le prime uscite pomeridiane, insieme a un amico delle medie, partono da lì, dall’arteria che taglia in due Prati partendo da San Pietro e in un chilometro e mezzo ti conduce fino al ponte Margherita che a sua volta ti catapulta a piazza del Popolo. Pochi autobus a disposizione per chi veniva come noi dalla Balduina, quartiere arroccato sulla collinetta di Monte Mario. Io e il mio amico Marco Bonini avevamo in comune la passione per la musica e per il cinema. Quasi inevitabile per chi ha assorbito per intero il decennio pop per eccellenza: gli anni Ottanta. Le tappe di quelle uscite che ricordo a malapena ci portavano spesso nel quartiere Prati o al centro di Roma, sospesi tra due sponde del Tevere più o meno alla stessa altezza: da una parte la lingua di terra con sopra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, dall’altra piazza Navona e il dedalo di bellissime viuzze che la circondano e via del Corso con i suoi negozi non ancora globalizzati pieni di colori fluo in vetrina.
Il quartiere Prati, che oggi trovo soffocante a causa delle sue strade tutte uguali, dei suoi palazzi pesanti anneriti dallo smog, degli alberi malati e pieni di uccelli che sporcano i marciapiedi, dell’impossibilità di trovare un fottuto parcheggio per la macchina, fu allora la mia educazione culturale in ogni campo. Negozi di dischi, memorabilia del cinema, noleggi di film in VHS, libri, rosticcerie, i primi fast food aperti a Roma, in certi casi scomparsi dopo poco tempo. Quelle uscite formarono il mio carattere e il mio modo di essere. Avevo quattordici anni e una smisurata curiosità di conoscere, di uscire, di prendere la metro A ed esplorare quella che, cominciavo a capirlo, era la mia città. La città più bella del mondo, lo dico senza timore di essere smentito: ho appena guardato uno di quei video con la città deserta e mi sono commosso. Una città senza stimoli purtroppo da tanti anni. Eppure bella di una bellezza disarmante, che non può non riempirti il cuore.
Se l’avessero chiusa allora, proprio mentre iniziavo a staccarmi da casa, i miei quindici anni sarebbero stati più poveri. Non avrei coltivato quell’amicizia così importante per l’epoca, non avrei potuto ammirare Roma, non avrei soddisfatto la mia curiosità. Lo avrei fatto dopo? Chissà. Qui non sappiamo ancora cosa cazzo c’è, dopo.
2) Piazza Colonna, Roma.
Vado qualche metro più avanti con il cursore del mouse ed eccomi qui, qualche anno dopo, ne avrò avuti una ventina o poco più, cercando di dimenticare una ragazza. Per farlo dovevo distrarmi, andarmene il più possibile in giro, bere, fumare, fare tutto quello che siamo in grado di poter fare a vent’anni. Mettere il fisico alla prova, farlo resistere, imparare a conoscerne i limiti. E cercare di innamorarmi di nuovo, di più. Fu così che quel giorno decisi di uscire e andarmene in giro per il centro di Roma, da solo, senza l’amico dei quattordici anni. Camminavo a testa bassa nei pressi di piazza Colonna, proprio di fronte alla bellissima Galleria Colonna, che di lì a qualche anno avrebbe preso il nome di Alberto Sordi. Un incontro fortuito con degli amici e una ragazza nuova con loro, mai vista. Maria Sole, un nome quantomeno particolare. Un colpo di fulmine senza precedenti. Aveva i miei stessi interessi, quegli interessi che qualche anno prima avevo costruito andando in giro per il quartiere Prati. Tutto ha un senso, tutto torna. Maria Sole è stata una storia breve, intensissima, che sarebbe potuta durare una vita. È finita presto, mi è costata altri litri di alcol, altri chili di nicotina, altre donne da trattare male, altre donne che mi hanno trattato male, ma quelle sensazioni così pazzesche, uniche, me le porto dietro da sempre e non se ne vanno più via.
Con il lockdown in corso, probabilmente, non l’avrei mai incontrata, abbracciata, baciata. E se qualcuno adesso si stesse perdendo una cosa così? L’unico vantaggio è che non lo saprà mai.
3) Via Flaminia 1060, Roma.
Ancora qualche anno dopo, eccomi in un parcheggio all’altezza di Grottarossa. Sono già diventato quello che sono adesso. Un cazzone con la felpa col cappuccio e le sneakers. È sera e il cielo è gonfio di pioggia. C’è un concerto gratuito di un gruppo giovane che ho imparato ad apprezzare, voglio vederli alla prova dal vivo. Sono i Subsonica. È il mio primo vero live. All’aperto, in un parcheggio scasato in mezzo alla campagna. Dopo un po’ inizierà a piovere, ma la voglia di ballare e cantare non diminuirà e non se ne andrà mai più. Cantare a squarciagola in mezzo ad altre persone con i tuoi stessi gusti che sono lì per fare la stessa cosa è qualcosa di unico.
A quel live ne sono seguiti tantissimi: l’idea che questo maledetto virus possa privarci della musica dal vivo mi tortura. E se quel giorno il problema non fosse stato la pioggia, ma l’impossibilità di stare insieme ad altre persone? Ci sarebbe stato il mio primo live? Quando? Non so rispondere nemmeno a questo, maledizione.
4) Zoologischen Garten Bahnhof, Berlino.
Trent’anni e un viaggio poco convinto a Berlino. Appena sceso dal treno, alla stazione dello Zoo, cambia tutto. Come quel colpo di fulmine a piazza Colonna. Stavolta ciò che mi colpisce è la città, la sua aria frizzante, gli odori di cibo etnico, le scritte luminose sui grattacieli, il cielo grigio. Ancora non lo sapevo ma Berlino sarebbe diventata la mia seconda città. L’unica per cui ho tradito Roma. Quella in cui sono riuscito a trovare un lavoro, Claudia, Annalisa e il brivido che mi mancava a casa mia. Di brividi ne ho sentiti anche troppi a dire la verità, ma ogni volta che sono lì mi sento in stato di grazia. Ho imparato a conoscere la sua anima mutevole e ho deciso che somiglia alla mia. Viaggiare, prendere un aereo, andare lì e tornare a Roma solo quando ne sento un po’ la mancanza. Tutto facile prima. E adesso? Adesso mi accendo una sigaretta e osservo il mondo dal terrazzo. Non sento più gli aerei volare, non li vedo passare spesso come prima. La mia vita senza Berlino non sarebbe stata la stessa. Ora mi manca da matti, ma se quel viaggio poco convinto avessi dovuto annullarlo, avrei mai deciso di rifarlo?
5) Cabo da Roca, Portogallo.
Il mio rapporto con il mare è complesso. L’ho amato finché non ho cominciato a tollerare poco il caldo, sempre più forte dopo quella maledetta estate del 2003 che ha cambiato per sempre il clima del pianeta. Avevo trentacinque anni quando ho deciso che la vita di mare in estate non faceva più per me. La gente, la sabbia, il fastidio, il non saper che fare sdraiati lì al sole, un bagno ogni tanto e aspettare disperatamente l’ora dell’aperitivo per avere qualcosa di cui godere appieno. Poi, passato qualche anno – mi trovavo a Sintra tra la fine di luglio e l’inizio di agosto – decisi di andare a guardare il tramonto in uno dei posti più alieni d’Europa percorrendo in macchina diciassette chilometri di strada tra i più suggestivi al mondo.
Cabo da Roca mi ha fatto riappacificare con il mare. Un oceano smisurato, il punto più a ovest d’Europa, oltre quel blu, a migliaia di chilometri, c’è l’America. Un faro, il vento tipico da fine del mondo, le distese di carpobrotus fioriti sulla sabbia fredda. Stare lì per oltre un’ora a guardare la roccia a strapiombo sul mare mentre cerchi di catturare in duecento scatti il sole che va via, mi ha riconciliato non solo con il mare ma anche con il mondo.
Se non ci fossi stato, odierei ancora il mare.
Chiudo Maps. E mi dispiaccio per chiunque stesse per vivere un’esperienza che gli avrebbe cambiato la vita. Adesso che è tutto chiuso, adesso che non è possibile.
in copertina Jason Limon – Ghost aflame