CAPITOLO XI – DRAGONCELLO
(suggestione sonora: Niccolò Fabi – È non è)
La quarantena era iniziata coi termosifoni ancora accesi, adesso è arrivata la prima zanzara in casa. Segno che il tempo è passato. L’ho ospitata per un giorno, non mi ha punto, poi l’ho uccisa al volo mentre tentava di fuggire: la sua vita è terminata nel percorso in altura tra lo specchio del bagno e il soffitto. La ricorderanno come morta durante la pandemia, anche se non direttamente a causa del virus.
Il tempo è passato, non ricordo quanto tempo sia, ma gli alberi qui sotto erano ancora secchi e adesso hanno le foglie verdi anche piuttosto fitte. Loro, dei barbieri e dei parrucchieri chiusi, se ne fottono. Esibiscono fieri la calvizie fino ai primi di marzo e poi sfoggiano una chioma invidiabile, senza nemmeno sentire caldo, fino all’autunno. Ieri sono uscito di casa per andare dal ferramenta e mi sono reso conto che non solo il tempo è passato ma la gente non capisce più nemmeno che giorno è. Così, di lunedì 27 aprile, un’anziana signora chiede la data a una ragazza. La ragazza risponde che è 26. La signora ribatte ancora, che giorno della settimana? e la ragazza: mi pare mercoledì ma non sono sicura. Tutto sbagliato. Volevo intervenire, poi ho rinunciato: in fondo che differenza fa? Il tempo passa, non hai appuntamenti, non vai a scuola, all’università, al massimo fai la spesa. Oppure lavori, e allora, pur in una situazione surreale, arrivi al venerdì desiderando un weekend in cui non farai assolutamente un cazzo di niente, se non cucinare colto da manie ossessivo-compulsive, immerso nei lieviti, nelle farine, nel prodotto introvabile della settimana che è introvabile perché va di moda sui social e nei tg.
Ho deciso che se mi pagano bene cercherò di promuovere l’uso del dragoncello. Così le pecore correranno a comprarlo e la scomparsa della preziosa erba da tutti i supermercati farà notizia. Poi via, tutti a postare la pizza al dragoncello, la torta al dragoncello, il limoncello al dragoncello, il dragoncello al dragoncello. In lockdown o hai molta fantasia e spirito imprenditoriale oppure soccomberai mentre frigni dicendo che presto l’economia sarà morta e il liberismo ha i giorni contati.
Più dragoncello, meno piagnistei.
In molti, anche nella mia Berlino, chiedono a gran voce il ritorno della libertà, ma la libertà nel fantastico occidente attualmente prevede al massimo che tu torni a breve a mettere due soldi in tasca per campare senza ansie. Sempre che nel frattempo non crepi per il contagio, che non è che siccome non credi possa capitare a te, allora poi non ti capita. Nel caso camperanno bene i tuoi eredi, ammesso che prima o poi riusciamo a uscire da queste sabbie mobili e gli eredi possano davvero campare senza indossare uno scafandro per l’eternità; il che, caro amico chino sul fatturato, è tutto da vedere.
Le foglie, i capelli, le stagioni, il dragoncello, tutto procede come da copione, tranne noi.
Così ieri sera sono salito sulla terrazza del tetto, ho guardato le luci accese dentro ai palazzi, il cielo che mostrava le prime avvisaglie della pioggia sporadica di oggi e ho ascoltato tutti i rumori: anche quelli consueti che non ti sei mai spiegato da dove vengano. E ho realizzato che, rispetto a due settimane fa, il poetico silenzio della ligia quarantena si è rotto. Peccato. Ho percorso qualche metro sulle mattonelle consunte dal vento e dal sole, ho acceso una sigaretta, ho assaggiato, inspirandola, l’aria di primavera che ha un sapore diverso da quello dell’inizio della clausura. Migliore o peggiore, dipende dai gusti meteorologici. Volevo urlare, ma mi venivano solo monosillabi, quindi ho preferito non produrre ulteriore inquinamento acustico.
Poi sono tornato nel mio appartamento, ho guardato un orologio e mi sono reso conto che era passata un’ora. Un’ora della mia vita che, contro tutti i pronostici, ho trascorso sul tetto di casa, a Roma, durante una pandemia. Ci avessi scommesso a dicembre, sarei diventato milionario.
Forse un giorno ripenserò agli animali da zoo che siamo diventati, ma che tutto sommato eravamo anche prima: chi protesta e inneggia ora alla libertà non è consapevole che tra lui e un panda esposto al giardino zoologico, tutto sommato, c’è poca differenza. L’unica reale e tangibile è che il panda è sicuramente meno stupido perché almeno si rende conto di essere dentro a un rassicurante recinto e non nella sua foresta di bambù preferita.
Il tempo che passa, la libertà negata, i panda nel recinto, i meme sempre più stanchi sull’identità dei congiunti, il nord che produce contro il sud che ozia. Durante la pandemia ci siamo scoperti tutti più meschini, di certo per niente uniti come quelle bandiere ipocrite sui balconi volevano far sembrare nei primi giorni.
Il tempo passa e aggiusta tutto, dicono. Sarà.
Intanto mi sono ricordato perché me n’ero andato via dall’Italia: quasi nessuno ha pensato al dragoncello.
in copertina Mark Bryan – Diablo High Wire